Nell’attività didattica molto spesso si danno per scontati principi che non solo sono tutt’altro che ovvi, ma che ad una approfondita analisi risultano completamente infondati. Sono miti, passati acriticamente da una generazione all’altra, basati su pregiudizi mascherati da buon senso, accettati come indiscutibili verità.
Il mito delle diverse capacità. Non è vero che ci sono ragazzi più brillanti ed altri meno a causa di oggettive limitazioni; ogni persona, se messa nelle opportune condizioni, è in grado di dare prestazioni intellettuali a livello di chiunque altro. Il paragone con lo sport è sbagliato. Gli atleti infatti hanno doti oggettive in termini di forza, resistenza, velocità, superiori a quelle degli altri individui; l’allenamento da solo non basta per arrivare alle olimpiadi. Ma i cervelli di due qualsiasi persone normalmente dotate non differiscono in maniera evidente. Parlare di limitazioni oggettive è un comodo alibi per scaricare sulla natura una responsabilità che è principalmente dell’ambiente, in primo luogo della famiglia ma subito dopo della scuola.
Il mito della separazione tra gli aspetti cognitivi e quelli emotivi. Spesso viene dato per scontato che lo studio di una materia – specialmente quelle tecniche come la matematica – richieda unicamente uno sforzo di razionalità e memoria senza alcun coinvolgimento della parte emotiva della persona. Nelle aule scolastiche si può invece osservare quotidianamente (sempre che lo si voglia) come i livelli dell’apprendimento dipendano in maniera essenziale dalla qualità dell’investimento emotivo. Ragazzi intimoriti e mantenuti in un costante stato di minorità da ingiunzioni svalutanti vengono bloccati sui banchi di scuola da problemi banali che nella vita quotidiana risolverebbero senza difficoltà; altri schiacciati dall’ansia da prestazione sono talmente terrorizzati dall’idea di una insufficienza che preferiscono adottare la strategia di imparare tutto a memoria piuttosto che arrischiarsi in un approccio creativo; altri ancora manifestano il loro disagio fallendo deliberatamente. Come si può sperare di realizzare una efficace azione didattica senza lavorare anche alla costruzione di un clima il più possibile libero da giochi psicologici all’interno della classe?
Il mito della neutralità dell’azione dell’insegnante. Se guardiamo agli obblighi contrattuali, un docente dovrebbe esporre gli argomenti dei programmi ministeriali – magari in maniera il più possibile chiara – e predisporre un opportuno numero di verifiche – magari il più possibile oggettive e trasparenti – in base a cui formulare il giudizio su ogni alunno. Di fatto, dal momento in cui l’insegnante entra in classe si trova coinvolto in numerose relazioni umane e, per quanto distaccato cerchi di essere, non può evitare di farsi coinvolgere in qualche misura nel rapporto con i propri alunni. Inoltre insegnare non significa esporre argomenti; l’onere della costruzione della conoscenza è in proporzione maggiore dalla parte dello studente, pertanto l’insegnante si trova bombardato da un gran numero di feedback che non può ignorare se vuole che la sua azione abbia una qualche efficacia.
Il mito del programma. Ogni insegnante si trova a dover trattare un certo numero di argomenti elencati nelle indicazioni ministeriali, e non c’è dubbio che questo sia un fattore ansiogeno, soprattutto in considerazione dell’esame finale in cui gli alunni vengono giudicati da altre persone e su temi proposti a livello nazionale. Il punto è che aver parlato in classe di un argomento e averlo scritto nell’ultima pagina del registro non significa che gli alunni lo hanno appreso. Allora, mi domando, in cosa consiste il programma che un insegnante deve svolgere nel corso dell’anno scolastico: l’elenco degli argomenti che scrive nell’ultima pagina del registro o il bagaglio di conoscenze che i suoi alunni alla fine avranno acquisito? Per quella che è l’estensione delle indicazioni ministeriali e le oggettive condizioni di lavoro nella scuola italiana oggi, se si sceglie la prima risposta i programmi sono una ipocrisia burocratica totalmente inutile, se si sceglie la seconda si è costretti a ridurli parecchio rispetto alla loro estensione ufficiale. Meglio smetterla di pensare in termini di argomenti, ma piuttosto di competenze effettive.
Il mito della spiegazione. Gli studenti che riescono a rimanere agganciati a una esposizione lunga un’ora o poco meno cogliendo tutto quello che viene detto sono – in una classe ordinaria – una esigua minoranza. Il discorso che fa il professore (presupposti, deduzioni, esempi…) è chiaro nella sua mente ma per lo studente è una cosa nuova. L’attenzione, poi, ha dei limiti fisiologici. Basta dunque un momento di distrazione prolungata, un termine non compreso o frainteso, un po’ di stanchezza, ed ecco che si perde irrimediabilmente il filo del discorso. Comprendere a fondo un argomento significa metterci tutto il tempo che occorre, sminuzzare il ragionamento in parti più digeribili e poi ricomporre tutto insieme, replicare esempi e casi particolari fino a che non si è sicuri di aver capito. Questo è il processo di costruzione della conoscenza, e non l’ascolto passivo di una spiegazione. Pretendere che lo studente operi in tal modo nello studio individuale pomeridiano delle cose ascoltate a scuola la mattina significa quantomeno riconoscere implicitamente l’inutilità della lezione frontale. La classe è il luogo dove si impara, non altro.