Un tuono lacerò l’aria di quel pomeriggio grigio. L’acqua scrosciava e sebbene il mezzogiorno non fosse trascorso da molto – vuoi per le nuvole, vuoi perché eravamo ormai nel cuore dell’autunno – era già buio come al crepuscolo. Dalla piccola finestra entrava solo un filo di luce e la stanza era praticamente al buio. Sul tavolo fogli sparsi e gli avanzi del pranzo. In quella fittissima penombra, seduto sul letto e appoggiato al muro, con la schiena incurvata, egli stava; e così, con gli occhi persi oltre il muro, la testa vuota di pensieri, scivolava verso un assopimento non privo di dolcezza. Gli succedeva spesso ultimamente. La notte portava con sé un insopportabile carico di angoscia che non consentiva un sonno dolce e sereno, permettendo solo brevi intervalli di riposo agitato tra interminabili ore passate in compagnia dei peggiori pensieri. Così, la stanchezza pregressa esigeva il suo debito durante il giorno e, nell’ora che separa la mattina dal pomeriggio, volentieri egli cedeva, mentre il freddo si mescolava al torpore nella voce monotona e sempre varia della pioggia. D’un tratto, zoccoli di cavalli che sbattevano sul fango e voci di due uomini, in quella lingua così dura che egli non era mai riuscito ad amare, lo fecero tornare dolorosamente alla realtà. Un profondo senso di angoscia lo prese allo stomaco. Non si era ancora abituato a tutto ciò, troppo in fretta era successo. Come si può cadere così rovinosamente in pochi mesi dopo essere saliti tanto in alto? Forse solo chi sta in alto può subire delle grandi cadute, o forse no. Quello che però sapeva era che in questo momento tante persone meno importanti di lui erano anche meno infelici, sicure della propria vita (quanto può esserlo un uomo) mentre egli non avrebbe visto la prossima primavera. Ma non era questo un buon motivo per arrendersi. Bisognava accendere la lucerna e tornare al tavolo a scrivere quella lettera che aveva iniziato la mattina. Avrebbe usato parole forti, taglienti come lame, che non avrebbero lasciato indifferente il grande sovrano… Ma no, no, scoppiò in lacrime con la testa tra le mani, in fondo sapeva bene che tutto era inutile. Quante lettere aveva scritto nelle ultime settimane? Tutte cadute nel vuoto. No, Teodorico non era un grande sovrano, era un barbaro sanguinario che aveva deciso di chiudere i conti una volta per tutte con ciò che ancora restava dell’orgoglio di Roma, e lui, Manlio Anicio Severino Boezio, solo fino a due anni prima magister officiorum e consigliere del re, sarebbe stato giustiziato di lì a poche settimane. Poco importava l’inconsistenza delle accuse a suo carico, e meno ancora il prezioso sostegno che aveva dato a Teodorico per più di venti anni: oggi la storia prendeva un’altra direzione e non sarebbero state certo le sue lettere a farla tornare indietro.
I suoi pensieri erano come un animale ferito e spaventato che salta qua e là: dall’anticipazione di un futuro terribile alla memoria di come gli eventi fossero precipitati negli ultimi mesi. Ricordo e timore, questi i due poli tra cui si dibatteva. Passato e futuro, come se il presente non avesse nulla da offrire. Eppure lui, che non era abituato a farsi schiacciare dagli eventi, anche in quella situazione aveva qualcosa in grado di dare un senso al suo presente. Era la sua grande, ultima opera; quella che avrebbe salvato il suo nome dall’oblio, a dispetto di Teodorico e dei suoi cortigiani. Lavorava febbrilmente in quei giorni (quando non era impegnato a scrivere lettere al re) a quella che aveva immaginato come la consolazione della stessa Filosofia, che fatta persona entrava nelle stanze del suo discepolo prigioniero e dialogava con lui. La Filosofia, compagna di tutta una vita di studi, letture, meditazioni, adesso se la immaginava vicina a lui, a fargli forza, a ricordargli che esiste una sfera inattaccabile dalla violenza e dalla stupidità degli uomini. Non era forse questa la lezione di tanti sapienti del passato, primo tra tutti Socrate, che serenamente accettò la condanna in nome di una suprema idea di saggezza? Se la figurava bella, la Filosofia, bella ma in grado di incutere timore, giovane e antica, senza tempo, con gli occhi sfolgoranti; e alta, fino al cielo e anche più su, laddove il pensiero stesso viene preso da vertigine. E le sue vesti, mirabili, intessute di fili fatti di una materia che non si trova nell’ordinario di questo mondo, neanche nelle tuniche dell’imperatore. In questo suo dialogo ideale riusciva a trovare la forza per non impazzire e, forse, anche momenti di autentica serenità:
Allora, svanita la notte, le tenebre mi lasciarono
e agli occhi l’antico vigore fece ritorno;
come quando impetuoso addensa nuvole il maestrale
e stan sospesi nella volta celeste i nembi del temporale:
si cela il sole e benché in cielo non s’accendano ancora le stelle,
dall’alto si sparge sulla terra la notte…
Non smetteva ancora di piovere (da quanti giorni pioveva?) e nel frattempo anche quel poco di luce di un breve pomeriggio di fine autunno se ne era andata. Boezio finalmente si alzò, andò a prendere un tizzone nel piccolo braciere e con quello accese la lucerna. Un tenue tremolante bagliore riscaldò la stanza troppo fredda. Ancora l’eco di frettolosi passi nel fango e voci da fuori. Gli parve di cogliere un frammento di conversazione in latino, forse due sacerdoti che andavano in cattedrale; la sua prigione era infatti negli edifici adiacenti al battistero e, quindi, gli capitava spesso di rubare dalla sua solitudine le parole scambiate dagli uomini di chiesa che passavano di lì o l’eco di canti dall’interno della cattedrale. Le voci quella volta non passarono oltre, i due venivano proprio nel palazzo. La pesante porta cigolò sui cardini e poi si richiuse; Boezio non ci fece troppo caso, ma dopo pochi minuti udì dei passi nel corridoio davanti alla sua stanza. Si alzò di scatto; sentì la stessa voce che aveva udito prima nella strada scambiare alcune battute nella lingua dei goti con il soldato che stava di guardia. Certamente, come aveva potuto non riconoscerlo prima? Nello stesso momento si aprì la porta: Quintiliano. Uno dei pochi amici che gli erano rimasti, forse l’unico a non dileguarsi tra tutti quelli che fino a poco più di un anno prima lo circondavano coprendolo di lusinghe. Tante volte negli ultimi mesi si era interrogato su quel giovane che, malgrado la situazione, si esponeva a un rischio non indifferente frequentandolo ancora, senza poter sperare di ricevere in cambio nient’altro che i sospetti dei cortigiani di Teodorico. Ed era giunto alla conclusione: quella di Quintiliano era sincera ammirazione per lui, la sua cultura, il suo pensiero. Dunque, con quel tempo da lupi, la notte ormai calata, Quintiliano era venuto a trovarlo. Non c’è da stupirsi che Boezio potesse ricevere visite a qualsiasi ora: benché prigioniero era pur sempre un rampollo della gens Anicia, una delle più antiche e potenti famiglie di Roma, intime del potere da tempo immemorabile, con gli antichi imperatori come con i nuovi padroni barbari. Per questo motivo la sua prigione era un appartamento di tre stanze di tutto rispetto, non gli mancava mai legna per il braciere, olio per le lucerne, cibo di buona qualità e vino, vesti pulite, fogli di papiro su cui scrivere e, appunto, una certa libertà nel ricevere visite.
Boezio accolse Quintiliano con un sorriso e un abbraccio, ma si accorse subito che l’amico era oppresso da un profondo turbamento. Lo invitò quindi a togliersi il mantello fradicio e a sedersi accanto al braciere, poi gli offrì una coppa di vino. Il giovane, bagnato e infreddolito, accettò di buon grado, bevve un sorso e guardò dritto negli occhi Boezio dicendogli: «magister (così era solito rivolgersi a lui) ho cavalcato per due giorni fermandomi solo per la notte. Vengo da Verona. Teodorico ha deciso». Un brivido attraversò Boezio lungo tutta la schiena; poi, dopo un attimo di silenzio, Quintiliano riprese, pronunciando esattamente le parole che negli ultimi mesi Boezio aveva maggiormente temuto di udire: «Il re ha confermato la sentenza: sei stato condannato a morte». Detto questo, il giovane scoppiò in lacrime e si gettò tra le braccia del maestro impietrito, pallido e con lo sguardo assente. L’ultima frase continuava a rimbombargli in testa. Poi realizzò il senso atroce delle parole “condannato a morte”: si ricordò dell’ultima esecuzione a cui era stato suo malgrado costretto ad assistere, del laccio che si stringeva sempre più forte intorno alla testa, delle urla strazianti, delle prime gocce di sangue e, infine, del cranio che andava in pezzi… il condannato che agonizzava ancora per lunghi interminabili minuti. Fu preso dal panico. Senza dire una parola si alzò di scatto e camminò nervosamente avanti e indietro per la stanza. Dopo un po’ riprese finalmente il controllo dei suoi nervi, respirò profondamente e si sedette al tavolo. Quintiliano, asciugandosi gli occhi con la manica, si alzò, venne a sedersi accanto a lui e a bassa voce disse: «Domani, o al massimo tra un paio di giorni, verrà un funzionario a notificarti la sentenza. Sento che il mio posto è qui con te». L’amico lo ringraziò e lo pregò di fermarsi per quella notte; non avrebbe sopportato di restare da solo in compagnia dei suoi pensieri.
Boezio voleva sapere tutti i dettagli su come Teodorico avesse motivato la decisione, su chi fosse presente al momento della lettura del decreto, sui commenti che circolavano a corte e altro ancora. Tutte domande alle quali Quintiliano poteva dare solo risposte parziali, in quanto le sue notizie erano di seconda mano, ricevute da un parente funzionario a corte. Dopo circa un’ora una guardia portò la cena. Carne di maiale arrostita servita con miele e farinata giuliana, vino di Sicilia. Boezio non sopportava la cucina dei goti e uno dei pochi privilegi rimastigli in quella triste situazione era un cuoco romano.
Dopo aver mangiato, mentre fuori continuava a piovere violentemente e il braciere spandeva un rassicurante tepore nella stanza, la sua ansia si calmò; smise di fare considerazioni su modi, tempi e luoghi della condanna e si abbandonò a quelle riflessioni colte e raffinate che Quintiliano amava tanto. Parlava, Boezio. Parlava senza enfasi, riuscendo tuttavia a trovare immagini bellissime, come se un’intelligenza celeste avesse toccato il suo animo; con gli occhi lucidi per la commozione, il vino e il fumo che lieve veniva dal braciere, sembrava adesso che non volesse mai fermarsi. Quintiliano, quasi trattenendo il respiro, assorbiva avidamente ogni parola che usciva dalla bocca del suo maestro. Parlava, Boezio: della passata grandezza di Roma, dello sconforto del momento presente e della ruota della storia che aveva inesorabilmente compiuto il suo giro relegando quella grandezza in un tempo destinato a mai più ritornare. Parlava e ricordava. Lui, nato lo stesso anno in cui Odoacre aveva deposto l’ultimo imperatore d’occidente, ricordava un’infanzia felice trascorsa tra Roma, Ravenna e le residenze di campagna.
Ricordava un viaggio in Egitto con suo padre, il prefetto Flavio Narsete, e la memoria di quel viaggio gli faceva tornare in mente soprattutto lo studio della lingua greca e l’incontro con le opere e il pensiero degli autori che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Ma di quel viaggio ricordava anche i profumi e la dolcezza delle notti, rischiarate da una luna così grande come in Italia non l’aveva mai vista, testimone del suo primo incontro con l’amore. Allora fu un terremoto nel suo animo, adesso un’eco lontana. Neanche più gli sovveniva il nome di quella fanciulla dal carnato scuro e dai capelli neri come le piume del corvo, che parlava una lingua a lui incomprensibile e solo poche stentate parole in greco, figlia di qualche funzionario o mercante, conosciuta a uno di quei noiosi ricevimenti che i governatori delle città organizzano in onore degli ospiti stranieri di riguardo.
Quel viaggio, così importante per la sua vita, fu anche una delle ultime occasioni per stare insieme a suo padre che sarebbe morto pochi mesi dopo il loro ritorno a Roma, negli stessi giorni in cui Teodorico sbaragliava l’armata di Odoacre sull’Isonzo diventando il nuovo padrone d’Italia. Ora, la sua famiglia gli avrebbe cercato un tutore. Gli sarebbe potuto capitare un patrizio come ve ne sono tanti a Roma, interessato solo ai giochi, ai banchetti, alle rendite delle ville di campagna e a quel poco di politica necessaria a muoversi bene, senza fare passi falsi. Uno, insomma, sotto la cui guida difficilmente avrebbe potuto sviluppare le sue inclinazioni. E invece, per sua fortuna, venne affidato alle cure di Quinto Aurelio Memmio Simmaco, uomo ricco, intelligente e colto, che lo accolse come un figlio e come un figlio lo amava anche ora che le cose stavano precipitando. Simmaco, infatti, aveva voluto assumere personalmente la difesa di Boezio e, adesso, erano in molti a mormorare che si preparava per lui la stessa sorte. Boezio ricordava quelli trascorsi nella casa di Simmaco come anni belli e importanti. Quell’uomo, influente e di grande sapienza, gli aveva aperto le porte della sua casa e l’aveva favorito in tutti i modi negli studi e nella carriera pubblica; infine, ne aveva benedetto il matrimonio con sua figlia Rusticiana. Difficilmente poteva indicare qualcosa di negativo riguardo a suo suocero e alla sua famiglia; in quel momento, in cui la fortuna gli aveva voltato le spalle, l’unica consolazione era sapere che almeno loro erano tranquilli, rimasti per ora estranei al vento di tempesta che si stava abbattendo sulle genti italiche.
Continuava, Boezio, a ricordare; mentre le ore della notte lentamente scorrevano una dopo l’altra e Quintiliano ascoltava rapito la storia di una ascesa inarrestabile, fatta di amicizie influenti, di colpi di fortuna, ma soprattutto di un non comune valore. Come quando Teodorico venne a Roma per la prima volta e Simmaco volle presentargli il suo giovane genero: Boezio fece un’ottima impressione, tanto che da quel giorno il re gli chiese spesso consiglio su svariate questioni. Dieci anni dopo quel primo incontro lo nominò console. In quel periodo la fortuna di Boezio sembrava non abbandonarlo mai: era intimo del re, influente a corte come nel senato; contemporaneamente, scriveva i suoi libri sull’aritmetica e sulla musica, traduceva Aristotele e Porfirio, componeva i trattati di argomento teologico e tante altre opere che ne avrebbero fatto un intellettuale famoso, in Europa come a Costantinopoli. Sì, Boezio il sapiente, Boezio il console, Boezio l’influente consigliere di Teodorico… una stagione infinita.
La notte intanto avanzava, con lo scroscio della pioggia come sottofondo monotono, eppure sempre vario, e la luce calda e fioca della lucerna che gettava ombre tremolanti sopra i muri. Le frasi di Boezio erano intervallate da pause sempre più lunghe e il respiro calmo e regolare tradiva una stanchezza che di lì a poco avrebbe avuto finalmente ragione di una giornata terribile. Quando, dopo l’ultima frase lasciata a metà, Quintiliano si accorse che il suo maestro si era addormentato sulla sedia, appoggiato al tavolo con la testa sul braccio, anche lui scivolò sul giaciglio sopra cui era seduto con la schiena contro il muro e cadde in un sonno profondo.
La mattina dopo aveva smesso di piovere, ma l’aria era fredda, sferzata dal vento, e il cielo era pieno di nuvole minacciose. Le strade di Pavia erano piene di fango e nell’aria echeggiavano le imprecazioni dei carrettieri rimasti impantanati. Furono queste voci a richiamare Boezio alla realtà della sua situazione. Era sveglio. Cambiò lentamente la posizione, intorpidito e indolenzito, specialmente il collo e il braccio su cui si era appoggiato. Accanto a lui la lucerna era ormai spenta e nel braciere era rimasta solo cenere. Aveva freddo, per questo si strinse nel mantello. Poi il suo sguardo cadde su Quintiliano rannicchiato sopra il piccolo letto; dormiva ancora.
Quell’inizio di giornata fu molto penoso per i due: lunghi silenzi intervallati da poche battute, a bassa voce. Più tardi, poi, parlarono dell’ingiustizia profonda che permea la condizione umana e della questione del senso del male nel mondo. Boezio, pur toccato così da vicino nella sua vita, non cedeva allo scetticismo o alla disillusione. Per lui tutto si inquadrava comunque in un superiore disegno di provvidenza divina e anche coloro che compivano il male erano in un certo senso degni di compassione per l’infelicità che deriva dall’essersi allontanati dalla via maestra che conduce un uomo alla propria realizzazione.
Quintiliano aveva una sconfinata fiducia nel suo maestro, tuttavia non poté trattenersi dal chiedergli quanto ci fosse di vero nelle accuse mosse contro di lui. Il caso aveva fatto molto scalpore e in quelle settimane la storia era sulla bocca di tutti. Sulla lealtà di Boezio ognuno aveva un’opinione differente; a Roma come a Verona o Milano c’era chi considerava l’ex consigliere del re un traditore – e chiedeva a gran voce di farla finita una volta per tutte con la vecchia classe dirigente e col senato – e chi, invece, lo vedeva come una vittima innocente e segretamente sognava il ritorno dell’impero, magari con l’aiuto di Costantinopoli. In tutti i casi, però, il diritto c’entrava poco o nulla; che Boezio avesse tradito o no era semplicemente irrilevante. Egli era ormai diventato una bandiera, strattonata di qua e di là; il suo destino, più che dall’accertamento dei fatti, dipendeva da quale fazione fosse risultata vincente e, sfortunatamente per lui, in quel momento non era certo il partito filoromano ad avere più forza.
In realtà – spiegava Boezio a Quintiliano – Teodorico non era stato fino ad allora un cattivo re per i romani. Certo, egli guidava un popolo straniero, un popolo che, se non conquistatore, era quantomeno occupante. Teodorico, però, sapeva bene che non avrebbe mai potuto governare l’Italia contro i romani, o anche malgrado i romani. Boezio apprezzava le capacità di questo re deciso, saggio e, a volte, anche spregiudicato; in molte occasioni aveva offerto il suo contributo per risolvere importanti questioni. Né Teodorico si era dimostrato privo di gratitudine, dispensando al suo consigliere privilegi e cariche. Nel giro di qualche anno si era creata una situazione per cui si poteva ben dire che pochi uomini avessero tanto potere quanto quel romano, alla corte del re goto.
Ma allora perché, proprio in quel momento, all’apice della sua carriera, si era consumata la rovina di Boezio? Sotto le domande sempre più incalzanti di Quintiliano egli iniziò a raccontare la sua versione dei fatti. «Devi sapere che quando, due anni orsono, fu eletto papa Giovanni I, un carattere forte, in molti a Roma sperarono che l’equilibrio con Teodorico si rompesse e che l’imperatore di Costantinopoli, Giustino, decidesse finalmente di venirsi a riprendere l’Italia. Io non condividevo tanto questi entusiasmi, ma è comunque un dato di fatto che il clima politico si è da allora deteriorato. Per quanto mi riguarda, le cose iniziarono a precipitare quando il senatore Albino venne trascinato in tribunale con l’imputazione di alto tradimento. Le accuse mosse dal referendarius Cipriano erano pesantissime e, poiché riguardavano un senatore, tutta la faccenda era estremamente delicata. Conosci bene la storia del processo ad Albino, di come io stesso ne assunsi la difesa e di come a Verona riuscii a trionfare sull’accusa scagionandolo completamente. Quello che però forse non sai è che in realtà Albino non era del tutto innocente; alcune lettere all’imperatore Giustino, in cui parlava della mutata situazione politica in Italia dopo l’elezione di Giovanni I, lui le aveva scritte veramente; anche se non contenevano, come sosteneva invece l’accusa, la richiesta di intervenire militarmente per cacciare Teodorico».
Quintiliano era ammirato: «Nessuno può resistere alla forza dei tuoi ragionamenti, maestro. Ma come è stato possibile che da difensore tu divenissi accusato? In fondo la storia delle lettere a Costantinopoli riguardava solo Albino».
«Infatti – riprese Boezio – ma il punto chiave di tutta la faccenda consiste nei famosi documenti prodotti da Cipriano. Quell’uomo, fazioso e stupido, sospettava l’esistenza delle lettere scritte da Albino. Dato che non era riuscito a metterci le mani sopra, pensò bene di costruire dei grossolani falsi, imitando la grafia, la firma e il sigillo di Albino; si trattava di lettere in cui venivano tirati in ballo anche alcuni importanti senatori. Quando però i documenti arrivarono nelle mani dei giudici, a Verona, riuscii, in una maniera che sarebbe troppo lungo spiegarti adesso, a mostrare la loro falsità. I giudici decisero che non era il caso di inoltrarli a corte, terminarono il processo con l’assoluzione di Albino e, soprattutto, con il rigetto della tesi secondo cui il senato complottava concorde contro Teodorico».
«Una grande vittoria, maestro», lo interruppe Quintiliano.
«Solo in apparenza, mio caro amico. In realtà fu l’inizio della fine. Cipriano scoppiava di rabbia e non aveva certo intenzione di restarsene con le mani in mano. Quel serpente superò sé stesso accusandomi di aver bloccato notizie importanti dirette a Teodorico; poco importava che si trattasse di notizie false e che i giudici di Verona avessero deciso in piena autonomia di fermarle. E sai quando aspettò Cipriano per sferrare il suo attacco? La fine dell’estate, quando ero scaduto dalla carica annuale di magister officiorum e quindi come semplice senatore ero più vulnerabile».
«Vigliacco!»
«Infatti. Comunque, ascolta il seguito della storia. Agli inizi di settembre lasciai Ravenna e tornai a Roma. Come ti ho già detto, la mia carica era scaduta e quindi non avevo più motivo di trattenermi presso la corte. Oltretutto, il re non era più lo stesso nei miei confronti. Sai, Teodorico negli ultimi anni è assai cambiato. Forse tu non hai avuto molte occasioni per conoscerlo, ma ti posso assicurare che, rispetto a qualche anno fa, oggi è un’altra persona. Si è incupito, è triste, deluso e certi suoi atteggiamenti possono apparire duri, ma in realtà è solo ciò che affiora di un dolore profondo che si porta dentro».
«Maestro! – si scandalizzò Quintiliano – quel barbaro ha appena firmato la tua condanna a morte e tu lo giustifichi!»
«Quintiliano – rispose Boezio guardandolo con dolcezza – sei così giovane e così impulsivo… ma non lasciare che le passioni offuschino la tua ragione. A volte la vita è un fiume impetuoso e noi siamo tronchi portati dalla corrente anche dove non vorremmo andare. Teodorico è il primo sconfitto in questa situazione e la cosa più tragica per lui è che con tutto il suo potere non è in grado di fare nulla per cambiare il corso delle cose. Il suo sogno era quello di fare dell’Italia, dopo tanti anni di turbolenze, una terra tranquilla e prospera. Come ai tempi di Augusto o di Marco Aurelio, una terra in cui goti e romani coesistessero e cooperassero pacificamente. E non ci sarebbero state forse le condizioni? Gli italici ormai non più in grado di darsi da soli un governo forte e stabile; i goti ben consci che avevano solo da guadagnare integrandosi in una civiltà che era comunque superiore alla loro; Costantinopoli senza i mezzi sufficienti per tentare una riconquista dell’impero d’occidente e gli altri regni barbari troppo deboli per costituire una seria minaccia. Eppure…», si fermò un attimo, come ad inseguire un pensiero, «…eppure – riprese – qualcosa stonava in questo quadro apparentemente perfetto. Basta l’azione sconsiderata di un impulsivo come Albino ed ecco che le passioni nascoste sotto la cenere si riaccendono in un attimo e gli elementi più estremisti in ogni fazione prendono forza. Cosa può fare un sovrano a questo punto? Piegarsi come una canna al vento e appoggiare le scelte per lui meno dolorose».
Ci fu un momento di silenzio. Quintiliano scuoteva la testa, poi, abbozzando un sorriso amaro, disse: «Eventi che si susseguono, più grandi di noi, al di sopra delle nostre volontà, ci travolgono come una frana, vero?»
«In un certo senso è così – rispose l’altro – anche se talvolta sembra che l’azione di uno solo possa cambiare il corso degli eventi, non è vero. Cipriano poteva anche avere un sussulto di onestà, e forse adesso io non sarei qui ad aspettare il boia, ma credi che per questo il progetto di Teodorico di coesistenza pacifica tra goti e romani avrebbe avuto successo? Oppure che la grandezza dei secoli passati sarebbe potuta nuovamente tornare? Niente affatto, amico mio: la storia ci sovrasta e ci conduce dove vuole. Ed è giusto così, perché tutto ciò che accade non accade per caso, ma secondo il disegno superiore della provvidenza divina».
«Ma insomma – riprese Quintiliano – alla fine il pretesto a cui si sono attaccati i tuoi nemici per farti condannare è solo il fatto che tu abbia smascherato delle lettere false?»
«No – rispose Boezio – naturalmente c’è dell’altro. Tanto per cominciare, nella sua accusa, Cipriano mise l’accento sul fatto che io avevo in qualche modo intercettato dei documenti riguardanti cose essenziali per lo stato, tralasciando il fatto che tali documenti fossero falsi. Poi, avendo egli (come forse avrai capito) una particolare disposizione per falsificare carte, produsse alcune lettere che dovevano far parte del carteggio tra me, Fausto, Albino e altri senatori; lettere naturalmente che io non avevo mai scritto e riguardo al cui contenuto puoi facilmente immaginare. Così mi trovai addosso anche l’accusa di aver cospirato per ottenere, grazie alle armi di Costantinopoli, il ripristino dell’autorità imperiale in Italia. Questa seconda accusa offendeva profondamente la mia intelligenza: non nego, infatti, che non passi notte senza che io sogni il ritorno di Roma ai suoi antichi splendori, ma so benissimo che ormai si tratta di un sogno destinato a restare tale. Se anche Giustino venisse in Italia con tutto il suo esercito, non lo farebbe certo per rimettere sul trono un imperatore con tutta la dignità e autonomia di un tempo, ma piuttosto per annettere direttamente al suo regno anche le province occidentali (e non credo che per noi si rivelerebbe un sovrano tanto migliore di Teodorico). Comunque, per completare il quadro, Cipriano pensò bene di aggiungere anche l’accusa di aver cercato di ottenere con l’inganno alte cariche e, addirittura, di essermi macchiato di sacrilegio, tanto per alienarmi la simpatia del clero».
«Non c’è che dire maestro – commentò ironico Quintiliano – ti aveva proprio sistemato bene, Cipriano!»
«Già. Quando ebbi notizia da Fausto, che in quei giorni si trovava a corte, di ciò che si stava preparando sulla mia testa non aspettai un istante e partii subito alla volta di Pavia per incontrare Teodorico e difendermi davanti a lui. Lungo la strada, a Luni, incontrai un funzionario regio che stava venendo a Roma per notificarmi ufficialmente che era stata aperta un’inchiesta nei miei confronti. Ormai è passato un anno esatto da quei giorni; ricordo che era freddo e pioveva come oggi, le strade piene di fango e le foglie morte che cadevano portate dal vento…»
Si fermò, Boezio, e gettando lo sguardo al cielo grigio fuori dalla piccola finestra, sospirò. Quintiliano capiva tutto il dolore contenuto in quei ricordi e, dopo aver esitato un attimo, riprese: «E il re? Cosa rispose ai tuoi argomenti?»
«Il re? In realtà non ebbi grandi occasioni per parlare con lui. Per diversi giorni non ci fu modo di incontrarlo: il re si negava, non voleva vedermi, e io, che fino a pochi mesi prima ero stato uno dei suoi consiglieri più intimi, mi trovavo adesso nella condizione di un qualsiasi proprietario di terre che si fa pazientemente ore e ore di anticamera per chiedere una riduzione delle tasse. Comunque, dopo quattro giorni, Teodorico si degnò di ricevermi. Della considerazione e confidenza di un tempo non c’era più traccia. Era scostante, mi trattava come l’ultimo dei suoi sudditi, evitando di guardarmi in faccia e rispondendo sempre evasivamente. Alla fine disse che lui non poteva occuparsi di tutti i casi giudiziari, che non conosceva bene le accuse perché non aveva avuto il tempo di leggere le carte, che mi avrebbe fatto parlare con il giudice che aveva in mano l’istruttoria e che, comunque, a mia maggior garanzia e in considerazione dei miei meriti verso lo Stato, avrebbe istituito una commissione di inchiesta composta da senatori. Aggiunse che se non ero colpevole potevo stare tranquillo perché la verità sarebbe comunque venuta a galla e mi sarebbe stata resa presto giustizia».
«E tu eri tranquillo?», domandò Quintiliano.
«Per nulla, ovviamente. Comunque feci l’unica cosa che potevo fare: andai a parlare con il giudice. Mi accorsi ben presto che quello che doveva essere un incontro informale per valutare le accuse era in realtà una vera e propria udienza che si concluse con il mio arresto. Così, venni tradotto in queste tre stanze che sono diventate la mia casa da ormai un anno».
«Ma questo non è regolare – protestò Quintiliano – non potevano farlo. Che prove avevano contro di te?»
«Regolare? Ci sono momenti in cui il diritto si eclissa – commentò Boezio – quanto alle prove… lasciamo stare che è meglio».
«Perché?»
«I testimoni a mio carico erano Opilione (fratello di Cipriano, il mio accusatore), Basilio, suo genero, e Gaudenzio, grande amico e socio in affari di Opilione».
«Tutto in famiglia, quindi».
«Più o meno. Il fatto grave è che poco tempo prima Opilione e Gaudenzio erano finiti a loro volta davanti al tribunale regio, a Ravenna, per una storia di commerci di olio dalla Grecia all’Italia su cui non avevano pagato le tasse. I giudici li avevano condannati a rifondere al fisco la somma evasa e, dato che non era la prima volta che quei due restavano coinvolti in storie del genere, avevano anche decretato il loro esilio dalla città».
«Bene», commentò Quintiliano.
«Già. Tuttavia Opilione e Gaudenzio, non volendo abbandonare la città, decisero di esercitare il diritto di asilo e si rifugiarono nella basilica».
«Ma il diritto di asilo – obiettò Quintiliano – riguarda gli imputati prima del processo, non coloro che sono stati riconosciuti colpevoli e hanno già subito la condanna».
«Infatti – continuò Boezio – e per questo motivo Teodorico in persona, quando lo venne a sapere, firmò un ordine in base al quale i due dovevano essere cacciati dalla basilica e da Ravenna. Quando si trovarono davanti ai soldati e al funzionario regio che erano venuti a prenderli, questi galantuomini pensarono bene di barattare la loro colpevolezza con la mia e dichiararono che avevano importanti rivelazioni da fare. Furono quindi riportati davanti al giudice dove confermarono tutte le accuse di Cipriano a mio carico. Tirarono in ballo anche Basilio, che era senz’altro d’accordo, e che ripeté sostanzialmente le stesse cose. Risultato: il giorno dopo Teodorico firmava un nuovo ordine con cui veniva annullata la condanna all’esilio per Gaudenzio e Opilione e, contemporaneamente, partiva un funzionario alla volta di Roma per notificarmi l’apertura dell’inchiesta».
«Veramente da non credersi», commentò Quintiliano.
«Ma aspetta – lo incalzò Boezio – non è finita».
Riprese: «Devi sapere, dunque, che Teodorico mantenne la sua promessa e istituì una commissione di senatori per giudicare il mio caso. La commissione, sotto la presidenza del paefectus urbi, svolgeva i suoi lavori a Roma e intanto io ero prigioniero qui a Pavia, e già questa è un’anomalia abbastanza grossa, mi sembra»
«Senza dubbio – convenne l’altro – ma almeno i senatori saranno stati giudici più comprensivi di quelli di Verona».
«Sarà anche così, ma questa simpatia non mi ha portato alcun vantaggio».
«Come?», domandò Quintiliano.
«Ascolta bene – disse Boezio – io non voglio credere che il senato di Roma sia composto da vigliacchi; preferisco pensare che al momento della sentenza si siano imposte considerazioni di ordine più elevato, che si sia preferito sacrificare uno solo per proteggere molti. In fondo, era Teodorico in persona che premeva per la mia condanna, una condanna esemplare che togliesse ogni velleità di rivincita ai romani. Il fatto, però, è che i senatori della commissione non si lasciarono convincere nemmeno dall’appassionata difesa di Simmaco, mio suocero; e così, senza mai avermi sentito, emisero un verdetto di colpevolezza».
«Proprio una bella prova di giustizia!», fu il commento ironico di Quintiliano.
Boezio abbozzò un amaro sorriso, poi, dopo un lunga pausa, riprese: «Il resto è storia recente. Le mie lettere, gli inutili appelli a Teodorico, fino alla condanna di tre giorni fa che tu stesso mi hai comunicato». Boezio era demoralizzato; per la prima volta in tanti mesi era stanco, arreso. Si versò una coppa di vino e ne versò una anche a Quintiliano, poi rimase immobile, con lo sguardo perso oltre il muro. L’altro, a vedere il suo maestro così prostrato, si sentì pervadere da una rabbia impotente. Picchiò la mano sul tavolo e disse: «No! Non può essere che tutto sia perduto. Non è giusto, non è logico. Ci deve pur essere qualcosa che ancora si può fare per capovolgere questa situazione!».
«Come no – gli rispose scettico Boezio – potrei per esempio scrivere una bella lettera a Teodorico… in fondo in questi mesi non l’ho mai fatto».
«Ma io dico sul serio – protestò l’altro – magari un’azione di forza per liberarti».
«Ottima idea – lo schernì Boezio – aiutami con quel tavolo, vediamo se ci riesce di buttare giù il muro che dà all’esterno, poi rubiamo due cavalli e il gioco è fatto». Disarmato dalle risposte del suo maestro, Quintiliano si rese conto di aver detto delle stupidaggini e, cambiando tono ed espressione, scherzò sui suoi stessi propositi e disse: «Giusto! Però, prima di andare a imbarcarci per Costantinopoli, facciamo un salto a Verona, a palazzo, e appicchiamo il fuoco alla barba di quel vecchio trombone di Teodorico!». L’immagine dell’austero re con lo sguardo torvo e la barba in fiamme fece scoppiare Boezio in un fragorosa risata. Fu l’inizio di una gara a chi la diceva più grossa. In una maniera assolutamente imprevedibile quei muri che per mesi avevano trasudato solo angoscia erano adesso squassati da risate sguaiate. Quasi come in un carnevale, la gravità che competeva al momento presente era svanita in una atmosfera irreale creata dal vino e dalle improbabili immagini frutto di una fantasia alterata dalla sofferenza. I due avevano le lacrime agli occhi per il troppo ridere quando il rumore secco dei catenacci della porta che scattavano li bloccò così come erano. Boezio si alzò e andò di fronte al funzionario regio che si era fermato sulla soglia. I due rimasero un attimo fermi l’uno di fronte all’altro, in silenzio, guardandosi negli occhi. Intanto Quintiliano, impallidito, era venuto dietro le spalle del maestro. Poi, il funzionario consegnò a Boezio un rotolo con il sigillo personale di Teodorico e, senza dire una parola, uscì. La pesante porta si richiuse dietro di lui. Boezio rimase ancora un po’ immobile, con il rotolo in mano, guardando la porta chiusa. Poi, si volse verso Quintiliano, gettò il rotolo in un angolo della stanza senza averlo neppure aperto e abbracciò l’amico stringendolo forte. Le lacrime che scendevano copiose dai suoi occhi bagnavano sulle spalle la tunica di Quintiliano.