Quello tra credenti e non credenti è il tipo di dibattito che non giunge mai a una conclusione. Un ateo e un credente potranno discutere per ore, ma alla fine ognuno resterà nella propria posizione, se possibile più convinto di prima. Mi ha sempre colpito questo fatto, anche perché sono fermamente convinto che quando una discussione è costruttiva e non ideologica (cosa che tuttavia è abbastanza rara quando si parla di religione) alla fine dovrebbe esserci sempre un arricchimento reciproco ed eventualmente anche un cambio di posizioni. Con la questione di Dio ciò non accade, ma penso, dopo tanti anni di riflessione, di aver finalmente capito perché.
Il punto è che quando si discute da posizioni opposte su una certa cosa – esistenza o non esistenza di un fenomeno, validità o non validità di una legge, ecc. – l’accento è sull’oggetto della discussione, assumendo più o meno implicitamente che entrambe le parti condividano gli stessi strumenti linguistici e concettuali su cui costruire le proprie argomentazioni. Quando si parla di Dio le cose non stanno così. La differenza non è nell’oggetto della discussione (esiste o non esiste), ma nella prospettiva da cui i due soggetti che discutono considerano uno stesso fatto. E il fatto su cui atei e credenti concordano è – detto in termini semplici – che Dio non è definibile. Definire qualcosa significa metterla in relazione ai concetti che uno possiede, concetti che a loro volta sono radicati nell’esperienza. Un significato – e non una mera costruzione deduttiva a partire da postulati convenzionali – deve necessariamente radicarsi nell’esperienza, nello spazio e nel tempo. È chiaro quindi che il Creatore, esterno alla creazione, non potrà in alcun modo essere riportato alla catena logica esperienza-significato-concetto. A questo punto, di fronte al soggetto che ha la responsabilità della costruzione della propria conoscenza, si aprono due strade. Si può dire che ciò che non è definibile neanche esiste, dato che per tutto ciò che esiste deve esserci la possibilità di una definizione, e allora si è automaticamente portati a fare a meno di Dio. Oppure, si può assumere che l’esistenza eccede la possibilità della definziione e che se una cosa non è definibile non per questo non esiste; in questo caso Dio è una opzione plausibile che completa l’incompletezza del mondo materiale.
Per questo motivo un ateo non riuscirà mai a convincere un credente del fatto che Dio non esiste né il secondo riuscirà mai a convertire il primo alla religione. Se però l’uno o l’altro volessero far cambiare idea al proprio interlocutore, forse sarebbe meglio che invece di parlargli di Dio lo facessero riflettere sui presupposti su cui viene costruita la conoscenza e sui limiti del definibile.