Di solito sono gli studenti che imparano dai professori, questo è nei ruoli rispettivi. A volte però un insegnante può imparare molto dai suoi studenti. Ad esempio, mi sono accorto che portando alle estreme conseguenze la discussione sulla fisica, vale a dire senza dare nulla per scontato, ho potuto incontrare il problema fondamentale che un non-fisico ha nei confronti della fisica. Tutti noi che abbiamo studiato per anni questa materia, che ci siamo formati nelle aule universitarie e nei laboratori di ricerca abbiamo acquisito un linguaggio, un sistema di valori, di giudizi, una cornice concettuale all’interno della quale ci muoviamo per interpretare il mondo e dalla quale non possiamo uscire. E in fondo siamo anche grati a questa cornice, perché è quella che garantisce la nostra specificità rispetto agli altri, è quella che ci rende riconoscibili e stimati… è quella che ci dà da mangiare. Uno scienziato può spingere la sua indagine molto avanti, ma ben difficilmente abbandonerà il territorio di cui ha conquistato il controllo a prezzo di tanti sacrifici per mettersi allo stesso livello dell’uomo della strada, del generico, confrontandosi con lui solo con le armi del buon senso e della logica elementare applicata all’esperienza quotidiana, resistendo alla tentazione di proteggersi con l’invincibile corazza del formalismo matematico.
I ragazzi sono ancora aspecifici, non hanno acquisito certi automatismi, soprattutto non hanno interessi personali nell’affermazione di una determinata forma di sapere e si pongono di fronte alla realtà con lo sguardo limpido che deriva da una sana ignoranza. Le loro obiezioni sono le più ingenue e irriverenti, ma proprio per questo le più problematiche. Tali obiezioni possono essere spente dalla forza opprimente di imponenti costruzioni teoriche cristallizzate, oppure si può scegliere di lasciarle espandere in maniera incontrollata fino alla radice di tutti i problemi: il rapporto che sussiste tra realtà e modelli. Di solito, la fastidiosa catena di domande che il non specialista spara a raffica sull’accademico di turno viene interrotta con qualche dotta dissertazione sul modello standard o sul Big Bang, parlando di particelle subnucleari come di oggetti di esperienza che tutti dovrebbero conoscere; difficilmente un esperto ammetterà la più elementare delle verità riguardo a questo genere di cose (così elementare che forse anche lui l’ha dimenticata…): di fatto nessuno ha mai visto una particella elementare, né mai la vedrà. L’unico accesso che abbiamo a quell’ambito è quello indiretto basato su strumenti di misura a loro volta costruiti in base a una teoria che prevede l’esistenza di quegli stessi oggetti che devono rilevare. Chi conosce la fisica dagli studi liceali o attraverso la letteratura divulgativa si immagina un atomo come qualcosa che abbia tutti gli attributi fondamentali che una cosa deve possedere (forma, dimensioni, ecc.), che interagendo con un opportuno sistema di misura è in grado di far rilevare dallo strumento la propria esistenza; chi ha passato ore della sua vita in un laboratorio sa bene che tutto ciò che potrà avere della realtà di quello stesso atomo è una curva a campana sullo schermo di un oscilloscopio.
Lasciando liberi gli studenti di esercitare al massimo grado e in piena libertà il loro senso critico, si arriva invariabilmente al nocciolo della questione: che tipo di realtà è quella che si studia sui libri di fisica? Sul serio è quella che fonda l’esperienza della vita quotidiana? È in grado di imporsi con la stessa evidenza di quest’ultima o è piuttosto un modello, una collezione di vuoti esercizi autoreferenziali (come quelli dei compiti di matematica) senza la minima relazione con le strutture fondamentali dell’esistenza umana? Credo che – nella sua sconvolgente semplicità – quella sui modi di esistenza del misterioso livello fondamentale della realtà sia l’unica domanda su cui per un fisico valga la pena di spendere una vita di ricerca.